lunedì 26 dicembre 2011



Fotografia: la resa dei conti
Anche per la fotografia, così com'è nell'immaginario collettivo è arrivata l'ora della resa dei conti. E' arrivata l'ora di fare i conti con una tecnologia sempre più presente, a tratti anche invadente, ma ineludibile sia che la si veda positivamente, sia che la si avverta come invadente e scomoda. Sostanzialmente, si tratta di fare i conti con il "digitale". La scomposizione dell'immagine in vari strati, in diversi livelli, in diverse aree di lavoro, all'interno delle quali sia possibile un intervento. Ed è sostanzialmente questo aspetto che mette in crisi, in profonda crisi secondo me, i paradigmi che costituiscono l'idea formale della fotografia. L'espressione è, diciamo così, dubitativa, perché se la veridicità della fotografia, dava un senso di tranquillità, allo stesso tempo non convinceva più di tanto. In altre parole, da qualche anno questa "virtù della fotografia tradizionale, non appare più come un valore reale. Ma poi per quale motivo si ricorda una fotografia, se non per il suo grado di alterazione, di modificazione del mondo reale? Anche se poi in modo molto farisaico si sostiene esattamente l'opposto. In buona sostanza e anche molto umilmente, la tecnologia digitale sollecita una rivalutazione della percezione finale, attraverso un modo nuovo, più aperto e sperimentale, dove gli aspetti, gli elementi, i componenti dell'immagine sono organizzati, studiati, sperimentati e amplificati fino, e oltre il limite stesso della manomissione. Del resto occorre fare una precisazione, la fotografia è essenzialmente una tecnica, e in quanto tale nasce da precise conoscenze meccaniche, ottiche e chimiche. All'inizio, al suo debutto sulla scena mondiale, ai primi dell'ottocento, la fotografia viene salutata con entusiasmo, come espressione del nuovo mondo, dell'industrializzazione, del nuovo che avanza... Fino a che qualcuno la volle inserire nel novero delle "nuove arti". Allora i puristi si ritrassero scandalizzati, scavando una profonda trincea tra l'arte e la tecnica, ignorando, o fingendo di ignorare che una tecnica fondamentale alla base della fotografia, veniva già utilizzata dagli artisti già dal cinquecento. Attegiamento ipocrita, potremmo dire... Già, né più né meno di quello di coloro che condannano l'intervento digitale sulle immagini. Ignorando che il vero depositario dell'immagine stessa, la vestale della rappresentazione non è l'autore, il fotografo, ma il fruitore finale, quello cui l'immagine è diretta, a cui l'immagine dà qualcosa, che sempre più spesso non è la mera informazione circa un evento del mondo reale, ma molto più frequentemente una serie di informazioni, sempre più complesse, sempre più raffinate, sempre più subliminali. E sempre più potenti. Oggi, anche in grado di indirizzare le scelte dei destinatari finali. Fotografia figlia della tecnica... della scienza... Quindi, sostanzialmente non è cambiato niente, dai primi anni dell'ottocento ad oggi, e allora perché ci sono ancora i puristi che gridano allo scandalo, additando meravigliati, increduli, e offesi l'intervento digitale nella fotografia, come fosse un tentativo di far abortire l'arte, come se si trattasse di una contaminazione che porta diretta alla morte dell'idea, all'imbastardimento della razza...
Ma purista, secondo me, fa rima con assolutista, con integralista, con talebano, e questo non mi piace. 

giovedì 1 dicembre 2011

mylifethroughtheobjects

Questa è la versione visiva di un vecchio giochino che faceva sempre mio figlio Oliviero, che consisteva nel definire una persona attraverso gli oggetti di uso comune... Lo chiamavamo "se fosse"


venerdì 25 novembre 2011

L'arazzo di Bayeux




Capitolo 1
L'antiquario

«Buongiorno, sono Giacomo Calisi, l’antiquario, ho appuntamento con la signora Falteroni»
«Buongiorno dottor Calisi, si accomodi, la signora la sta aspettando» fece con sussiego il maggiordomo, introducendolo all’interno del lussuoso seppur buio appartamento. 
« Prego si accomodi, la signora sarà subito da lei… »
Il maggiordomo scomparve deferente e silenzioso. Giacomo Calisi, non amava quel mondo fatto di nobili decadenti e rassegnati lacché. Quello però era anche il mondo che generava la maggior parte dei suoi affari, e dei suoi guadagni, ragione per cui, aveva maturato un atteggiamento disinteressato, freddo, quasi asettico, che veniva scambiato facilmente, dai suoi interlocutori, come un nobile distacco. E questo lo facilitava non poco nella gestione dei suoi affari.
Aspettando l’arrivo della Falteroni, Calisi passò in rassegna, con lo sguardo, gli arredi del salottino che lo ospitava. Tutta roba di poco conto, il meglio la Falteroni se lo era già venduto da tempo… La luce filtrava a fatica dalle tende pesanti. Del resto difficilmente la luce del sole arrivava al primo piano dell'antico palazzo di vico Casana. 
La signora Falteroni assomigliava, o forse sarebbe meglio dire, ricordava la Lollobrigida, si capiva che doveva essere stata una gran bella donna, diversi anni prima, ma ormai il tempo non gli aveva concesso sconti, e le rughe faticavano a nascondersi sotto il pesante maquillage.
«Buongiorno Calisi » disse sbrigativa.
«Signora… »
«Venga quello che voglio mostrarle è nello studiolo» e s’incamminò senza fretta verso il locale adiacente.
«Ecco» fece indicando in piccolo dipinto posato sulla pesante scrivania ottocentesca.
Calisi si avvicinò al quadro, che a prima vista non sembrava essere di nessun interesse artistico, si trattava di un ritratto di un giovane uomo barbuto, il dipinto non eccelleva nella tecnica, e nemmeno rimandava a qualche nome conosciuto, avrebbe potuto trattarsi al massimo di una scuola… Ma il suo interesse fu distratto da un elemento secondario... La cornice.
Calisi prese il quadro fra le mani, lo girò, lo guardò meglio nei particolari. Si trattava sì di un dipinto di poco valore, ma la cornice era una vera opera d’arte. Una cornice imponente rispetto ad una tela di piccole dimensioni e di valore modesto. Le misure saranno state si e no 30 x 40 cm., con una decorazione scolpita, a caratteri floreali in doppio ordine, e rivestita in foglia d’oro. Non era facile trovare sul mercato antiquario una cornice di quella fattura, e poi in un ottimo stato di conservazione. Certo avrebbe dovuto fare delle ricerche, per stabilire chi potesse essere l’autore di quel manufatto…
Si fermò impedendosi di andare avanti con la valutazione. Si disse che era meglio aspettare che la Falteroni dicesse cosa aveva in mente.
« Cosa ne pensa, Calisi? »
Calisi attese qualche secondo prima di rispondere, sapeva che creare un stato di attesa avrebbe rafforzato la sua posizione in caso di una transazione.
«Signora Falteroni, il dipinto non è molto interessante. Per lo meno per me…» disse con superbia malcelata. 
« Però la cornice è molto interessante… »
Le sopracciglia della donna si arcuarono, a disegnare uno sguardo tra il deluso e lo scettico. Passò qualche secondo, poi la donna riprese:
« Pensa di potermi fare un’offerta... Per la cornice? »
« Avrei bisogno di qualche giorno per una valutazione più attenta, comunque penso di poterle offrire… sette, forse settemila e cinquecento euro. »


Lo sguardo della vecchia nobildonna si illuminò per un attimo, solo un attimo per poi ritornare padrona del suo sguardo.
«Bene Calisi, mi faccia sapere se è interessato all’acquisto. Quando pensa di potermi richiamare?» disse preparandosi a congedare l’uomo.
«Domani direi, domani nel tardo pomeriggio. Mi scusi, vorrei chiederle se ha riflettuto sull’offerta che le ho fatto per il Maggiolini… »


«Il Maggiolini non lo vendiamo. Per ora...» disse la Falteroni troncando di netto ogni discussione e avviandosi verso l’uscita.
« Giovanni l’accompagnerà. A domani allora. » 
Pochi minuti dopo Giacomo Calisi, era nella sua bottega di antiquario, in salita Santa Caterina, a cercare su internet notizie di Baratto Gobbi. Gli era venuto subito in mente. Quello poteva essere l’artigiano, autore della bellissima cornice della Falteroni. Baratto Gobbi era un artigiano, non molto noto al grosso pubblico, più che altro conosciuto dagli addetti ai lavori, operante a Genova a cavallo fra la prima e la seconda metà del seicento. Ebanista. Ma anche intagliatore e autore delle raffinate tarsie lignee del coro di Santa Brigida. In pochi secondi sul portatile si caricarono le immagini di una serie di intarsi, numerosi close up di volute ed elementi floreali scolpiti nel legno. Bordi di boiseries di noce, ammorbiditi dal tempo, si componevano sullo schermo del computer. 
Improvvisamente suonò il campanello. Qualcuno era entrato nel negozio. Strano, di solito non arrivava mai nessuno prima di mezzogiorno… 
Giacomo Calisi si sporse dalla balaustra di legno del soppalco, dove aveva lo studio, per vedere chi fosse. Era un uomo di circa sessant’anni, corpulento, capelli lisci e bianchissimi, elegante, dai modi sicuri. Aveva un’aria vagamente familiare, ma Calisi, lì per lì non lo riconobbe.
«Buongiorno, si accomodi, scendo subito» disse Calisi con formale gentilezza. L’uomo gli rivolse un lieve sorriso…
Appena Calisi gli fu davanti, l’uomo lo salutò cordialmente.
«Buongiorno Calisi, non si ricorda di me? »
Calisi, ricordò immediatamente, l’uomo che aveva davanti era Ranzo Ghedini, detto il Piccio, uno dei maggiori antiquari della capitale. Si erano conosciuti qualche anno prima a Milano in occasione della Triennale di antiquariato. Era un professionista di livello superiore, un giro d’affari di milioni di euro. Lavorare  con lui significava entrare nel Gotha, diventare ricchi e famosi. Il maggior cliente di Ghedini era soprattutto l’upper class americana. Ed aveva una serie di solide relazioni all’interno della curia romana, cosa interessante se si tiene conto che la sua specializzazione era proprio l’arte sacra del Cinque-seicento.
« Ranzo Ghedini, che piacere… si accomodi. Sono anni che non ci vediamo, sono onorato della sua visita… »  
Lo invitò a sedersi in una poltrona di cuoio antico sistemata a fianco di un altare marmoreo del seicento. L’uomo accettò l’invito, mentre con lo sguardo passava in rassegna, con una certa soddisfazione i vari pezzi che componevano la galleria. 
«Allora Calisi… » 
Fece l’uomo guardando negli occhi l’antiquario genovese.
«Sempre piccolo cabotaggio, vedo. Di qualità certamente, ma sempre piccolo cabotaggio… »
Calisi fece uno sforzo per non apparire irritato.
« Non posso permettermi di più. » fece ostentando una falsa umiltà.
«Non sono certo come lei, io… » 
«Andiamo, non le si addice tutta questa modestia, sono convinto che se lei decidesse di abbandonare questa città, potrebbe senz’altro arrivare a traguardi inaspettati. A Milano tutti ricordano ancora l’asta di Rosati del 2004. Non fu facile aggiudicarsi il Magnasco, ma lei aveva un suo asso nella manica… Vero Calisi? Andiamo me lo dica, chi c’era dietro di lei? »
Giacomo Calisi ricordava molto bene l’episodio al quale si riferiva Ghedini. Effettivamente aveva avuto la copertura di un pezzo da novanta della curia genovese, che intendeva entrare in possesso di quella tela. Si trattava della “Deposizione di Lazzaro” di Alessandro Magnasco, detto il Lissandrino. Altro che antiquariato, roba da museo era quella. Battuta da Rosati per quasi quattro milioni di euro. Ed era stato proprio lui, Giacomo Calisi, ad aggiudicarsela, lasciando di stucco tutti. 
« Beh, è passato del tempo… » 
Fece Calisi fingendo di apprezzare le lusinghe.
« Si trattò di una serie di fortunate coincidenze… » 
« Coincidenze un paio di palle! » sbottò ridendo Ranzo Ghedini.
« Lei aveva il grano, quello vero, mica noccioline. E siccome tutti sapevano che lei aveva sempre navigato in acque basse, era ovvio che qualcuno doveva averglielo dato, tutto quel denaro… O no? Nessuno era preparato al suo rilancio, fu un colpo da maestro, persino la Baselli Cardoni ci rimase di stucco. Se la ricorda la Baselli Cardoni? Con tutte quelle arie da gran dama, era un vero squalo. Quando fiutava un affare non lo mollava fino alla fine. E la fine erano sempre le sue tasche. » 
« La ringrazio » disse Calisi con un lieve sorriso, era evidente che Ghedini era riuscito a penetrare la sua corazza con l’adulazione, e adesso, dove voleva andare a parare?
«Ma immagino che non sia venuto fin qui per farmi dei complimenti… »
« Sempre diffidente, da buon genovese, eh… No non sono qui per gratificare il suo ego… »
Passò qualche secondo in cui i due uomini si fissarono negli occhi, cercando di capire, l’uno, le intenzioni dell’altro.
« Sarò breve e diretto, dopodichè se l’affare la interesserà potremo continuare a parlarne, altrimenti… Ognuno per sé… »
Calisi accennò un assenso col capo. Invitandolo a proseguire.
« Lei è mai stato a Perrecy les Forges? »
« No, non mi sembra » 
Ranzo Ghedini trasse dalla tasca interna della sua giacca una fotografia, che porse rapidamente a Calisi.
« Perrecy les Forges, Borgogna, dipartimento di Saone et Loire. Un paesino di duemila anime, case di pietra serena, tenuto che sembra un gioiello. Decentrata rispetto al paese, domina da circa novecento anni la chiesa di saint Pierre et saint Benoit. Un bellissimo esempio di architettura tardo-romanica, affiliata all’abbazia di Cluny, a pochi chilometri di distanza. Di particolare pregio sono i capitelli della navata centrale, praticamente intatti. Sono stati attribuiti recentemente ad un allievo di Wiligelmo, tale Bernardo Gilduino. Ne hanno parlato anche i giornali, qualche anno fa…
« Cos’è una lezione di arte sacra? » 
Intervenne Calisi.
« Non sia frettoloso, ascolti…  Dopo pochi mesi Perrecy les Forges e i suoi capitelli ritornarono alla pace dell’oblio. 
Ma qualcos’altro era sfuggito all’attenzione grossolana dei precedenti studiosi… »
« E cioè? » 
« Nella navata laterale destra, quasi fosse un ex voto, e forse proprio per questa ragione era passato inosservato, era esposto in una teca di vetro, un arazzo. La teca misurava poco più di tre metri per cinquanta centimetri. »
« Interessante, vada avanti. »
« Si tratta di un arazzo la cui fattura è risalente alla prima metà del XI secolo, francese, in ottimo stato di conservazione… »
« Bayeux? » disse sorridendo Calisi.
« Bayeux!, la parte mancante… »
« Aspetti, non corra, ho seguito anch’io ai tempi dell’università quella fumosa ipotesi secondo cui l’arazzo di Bayeux avrebbe misurato settanta metri, e non sessantasette… Ma era solo un’ipotesi. Era, anzi si è dimostrata essere un vaneggiamento di uno storico con troppa fantasia… » 
« Appunto! L’arazzo di Perrecy les Forges misura tre metri per cinquanta centimetri. Sessantasette  più tre fa settanta… No? »
« Sinceramente mi sembra un po’ poco per rilanciare un’ ipotesi rimasta tale per tutti questi anni. »
« C’è dell’altro » disse Ghedini che aveva lo sguardo di una faina appena entrata nel pollaio.
« Il punto di Bayeux. Il tipo particolare di punto col quale era annodata la trama all’ordito… Come certamente saprà non era una tecnica troppo diffusa… o no? »
« Non lo so, non sono un esperto, ricordo di aver seguito appassionatamente la questione, perché apriva nuove interpretazioni storiche all’invasione normanna dell’Inghilterra. Però il mio interesse era prevalentemente storico. Non sono mai andato così a fondo nella questione, tanto da indagare le tecniche della manifattura. E poi cosa aggiungerebbe alla storia questa ultima parte di arazzo? Cosa che non sappiamo già? »
« Appunto – fece Ranzo Ghedini, estraendo un’altra foto dalla giacca. – Appunto – Come certamente saprà il valore storico dell’arazzo di Bayeux sta proprio nella conoscenza di Hélas, che sarebbe l’ispiratore oltre che l’informatore, la spia di Guglielmo il conquistatore. La presenza di Hélas proprio in uno dei riquadri dell’arazzo sta a indicare la sua responsabilità nell’invasione… Ma negli ultimi tre metri dell’arazzo di Perrecy  si può vedere distintamente un altro personaggio fondamentale… Harold di Hastings. » 
E col dito indicò un particolare della foto che aveva messo sul tavolo, davanti a Calisi.
« Questo potrebbe voler dire che Harold di Hastings avrebbe venduto il suo paese… un tradimento… »
« Lasci che le dica una cosa – lo interruppe Ghedini – Non mi interessa molto il corso della storia, in generale… ma questa storia invece, mi coinvolge direttamente. »
« In che modo? » intervenne Calisi.
« Ed arriviamo al motivo della mia visita… Sono stato incaricato da un mio cliente, che ovviamente rimarrà anonimo, il quale  vorrebbe entrare in possesso dell’arazzo. »
Seguì un silenzio spesso che parve a entrambi non finire mai. L’incredulità aveva trasformato lo sguardo di Calisi.
« E allora? Cosa c’entro io con questa storia? » 
Ranzo Ghedini sembrava un felino, un grasso grosso felino, sicuro di sé. E continuava a fissare Giacomo Calisi dritto negli occhi, con un sorrisetto sornione. Poi con una voce melliflua riprese a parlare.
« Non si alteri Calisi, non era mia intenzione offenderla, o mettere in dubbio la sua onestà. Volevo solo darle la possibilità di fare il grande salto, di passare il guado, di entrare a far parte del giro grosso. Ma se non le interessa… come ho detto prima, ognuno per sé e Dio per tutti. » 
Calisi non sapeva che volto mostrare a Ghedini, se sembrare incredulo, o offeso oppure… non lo so che cosa. Decise per il formalismo, del resto non era il caso di fare tanto la verginella…
« Continuo a non capire cosa potrei fare per lei. »
« Mi porti l’arazzo e io le consegno centomila euro. »
Calisi era evidentemente paralizzato dalle quelle parole. La cifra che aveva sentito aveva spazzato via ogni reticenza verso l’uomo che aveva davanti. Ci mise un po’ a realizzare cosa gli stava proponendo Ghedini. Calisi aveva quasi sempre vissuto entro i limiti della legalità, più per comodità che per morale… Certo qualche volta anche lui si era servito del “Conte”, ma in genere… Il “Conte”…
Il “Conte” poteva essere lui l’aiuto che gli sarebbe servito… No stava correndo troppo. Andare piano, molto piano pensare alle difficoltà, crearne magari per cercare di alzare il prezzo… Calma, disinteresse. Distacco…
« Roba tosta Ghedini, i francesi non scherzano su queste cose. Si ricorda di Marcello Finti? Il suo avvocato ci mise quattro anni per ottenere l’estradizione, e chi lo vide, disse che quando tornò non era più lo stesso. Lo avevano pestato tanto e tante volte che gli era passata la voglia di ridere… Non ho proprio voglia di farmi strapazzare… »
« Andiamo Finti era un imbecille, e lei lo sa meglio di me. Non si ruba in un museo, anche se di provincia, facendo una spaccata. E poi… »
Seguì qualche secondo di calcolato silenzio. Ranzo Ghedini era un maestro della trattativa.
« E poi cosa? »
« Centomila euro... » 
Altro silenzio.


Capitolo 2
Il Conte

Armando Petrini, conosciuto nel giro come il Conte, passava per essere uno ignorante come una scarpa. Lui ne era consapevole, quindi spesso teneva la bocca chiusa, ma aveva un grandissimo pregio, era capace di eseguire gli ordini alla perfezione, con precisione, senza sbavature. Era piuttosto elegante senza essere ricercato. E nonostante avesse la stessa età di Calisi, quasi cinquant’anni, aveva un fisico atletico e scattante. Giacomo Calisi lo aveva “utilizzato” per qualche lavoretto particolare, e ogni volta ne era rimasto soddisfatto, il rapporto che si era creato poteva dirsi “inesistente”, non aveva, cioè, niente, non c’era stima, non c’era calore, non c’era niente, se non un corretto e asettico rapporto di lavoro. Ottimo quindi secondo i desiderata di entrambi. Il Conte viveva in via Domenico Chiodo, e quando non “lavorava” si dedicava al giardino e all’orto. Aveva trasformato un terreno anonimo a lato della casetta dove viveva, in un piccolo Eden dove fiorivano i glicini e arrossivano i peperoncini, elemento fondamentale della sua dieta da meridionale. Giacomo Calisi decise di fargli una visita senza il carattere dell’ufficialità, così, tanto per sondare il terreno. Prese la vespa, vespa rally color senape con circa duecentomila chilometri, e arrivò quasi per caso al numero 27 di via Domenico Chiodo. Alla casa del Conte si accedeva dal primo piano, che era a livello strada, poi bisognava scendere le scale per arrivare alla cucina, che si apriva sull’orto. Orto che era visibile anche dalla strada, difatti Calisi si affacciò dal parapetto di mattoni rossi consumati dal tempo e vide in basso il Conte che trafficava nell’aiola dei fagiolini.
« Conte! »
L’uomo si voltò e lo vide, si tolse il cappello di paglia che doveva essere nuovo di pacca, e con un cenno della mano, salutò Calisi. Si avvicinò e gli fece cenno di entrare.
Pochi minuti dopo erano seduti davanti ad un panorama mozzafiato, il porto la sotto, sembrava un giocattolo, dove piccole navi si “demuavano” a partire per l’America, altre, ubriache di feste, tornavano da crociere lontane. 
Sotto una pergola di glicine, con un bicchiere di Vermentino freddo in mano, Calisi cominciò a nutrire qualche dubbio sulla presunta ignoranza del Conte, che mettendo da parte i convenevoli cominciò:
« Allora? Come mai da queste parti? »
« Passavo… »
« Passavo un belino, sono tre anni che non ci vediamo, e stasera… per caso passavi di qui? »
« Disturbo forse? »
« No, non disturbi, ma sei venuto a cercarmi per qualche lavoretto, e siccome “te la remeni” così tanto è perché non sai come cominciare, segno evidente che si tratta di roba grossa Sbaglio? » Cazzo, non lo aveva mai sentito parlare così tanto, e tutto insieme. Di certo stupido non era.
« E’ vero, c’è qualcosa, qualcosa di grosso. In Francia… »
Il Conte arricciò il naso, anche lui sapeva che oltralpe non ci andavano molto per il sottile con i ladri di opere d’arte. 
« Raccontami tutto. »
E Giacomo Calisi cominciò dall’inizio, senza fare nomi naturalmente, il Conte lo seguiva attento senza interromperlo.
« Naturalmente bisognerà fare dei sopralluoghi. Pianificare tutto con attenzione e… »
Per la prima volta il Conte lo interruppe con una domanda…
« Io quanto ci guadagno? »
« Non so devo fare due conti, andare prima a vedere… -
« No poche balle, dimmi quanto mi dai e poi ti faccio sapere se la cosa mi interessa. »
« Posso arrivare a… cinquemila. »
Il Conte si prese il tempo di valutare l’offerta, e pareva riflettere mentre lentamente si srotolava le maniche della camicia.
« Non meno di ventiimila euro, o ti trovi un altro. Fuori le spese naturalmente. »
- Mi sembra tanto Conte, del resto rischio tutto io… -
- Rischi tu un cazzo, quando l’arazzo sparirà tu sarai a Genova in compagnia di quel tuo amico della Mobile… Come al solito no?
Già, quella era la “procedura” e lui lo sapeva bene. Calisi fece un cenno col capo.
« Va bene, ventimila. »
In quel momento fece il suo ingresso Marina, la compagna del Conte. Aveva circa quarant’anni, ed era veramente bella, flessuosa, felina e provocante. In giro si diceva che fosse un po’ troia. Di certo era consapevole del desiderio che provocava negli uomini. Ma Giacomo Calisi sapeva anche com’era il Conte. Una volta lo aveva visto atterrare uno di vent’anni più giovane di lui con una testata. E questo solo perché il minchione aveva fatto un complimento un po’ troppo osé alla sua compagna. 
Perciò quello per lui era terreno off limits.
« Buonasera Marina. »
« Calisi, che bella sorpresa. »

Il Conte era concentrato sulla guida, era a suo agio dietro il volante, gli piaceva guidare, al contrario di Calisi, che ora era perso nei suoi pensieri, e guardava distrattamente il panorama. Fu il Conte a interrompere il silenzio…
« E’ quasi l’una, fra poco siamo a Lione, direi di andare avanti fino a Macon, e poi a Cluny… va bene? O preferisci fermarti per pranzo? »
« No va bene, non ho fame » rispose distrattamente Calisi, che stava pensando a quanto stava succedenedo. Non era mai arrivato a commettere un furto di questa dimensioni… E nonostante fosse lusingato, per essere stato “scelto” da Ghedini, nonostante la cifra che l’antiquario romano gli aveva sventolato sotto il naso… nonostante tutto si sentiva inquieto. Non era proprio paura… Era come se qualcosa gli fosse sfuggito, in tutta questa storia…
Certo, loro adesso andavano lì. Ganzi, preparati, si fottevano l’arazzo, poi lui lo consegnava al committente e quello gli sganciava centomila euro. Punto e fine. Facile. Facile come… come prenderlo nel culo! Ecco come. Non sapeva ancora niente dei sistemi di sicurezza della chiesa che si accingevano a visitare. Ma non doveva essere gran cosa, perché tutti ignoravano il valore di quel tessuto, e poi altro non c’era. Non avrebbero messo certo un sistema di allarme sofisticato per i capitelli di Wiligelmo… o no?
E allora perché chiamare proprio lui? Perché quella cifra esorbitante?
Ranzo Ghedini conosceva decine di persone che avrebbero fatto il lavoro per molto meno… 
« Conte… » 
Il Conte si voltò leggermente verso di lui, pochi secondi, aspettando che continuasse. 
« Niente… » Non poteva certo dirgli della cifra che Ranzo gli aveva proposto. 
Giacomo Calisi, cominciò a prendere in considerazione altre ipotesi. Qualcuno voleva incastrarlo? Ma no, non aveva nemici così importanti. Non aveva mai schiacciato i calli a nessuno… Beh quella volta a Milano, la Baselli Cardoni c’era rimasta molto male… Ma questo non giustificava una vendetta di quella portata… No in fondo era stata una cosa pulita. Cercò di non pensarci.
« Vuoi che guidi io? » 
« No vado bene grazie. » 
« Calisi, quanto prendi tu per quest’affare? » 
Calisi rimase spiazzato dalla domanda del Conte.
« Lo sai che questo è il genere di domande che non bisogna fare. –
« Lo so, ma qualcosa mi puzza. » 
« Che vuoi dire? » 
« Voglio dire » riprese il Conte «che il lavoro più grosso che ho fatto per te è stato l’affare Riboldi, te lo ricordi? –
« Certo »
« Cinquemila » 
« Sì, e allora? » disse Calisi un po’ a disagio. Era mai possibile che il Conte avesse fatto delle considerazioni… Oppure era lui che era rincoglionito? 
« Voglio dire che se tu mi dai cento, come minimo ne prendi quattrocento o forse di più… »
Calisi era sempre più a disagio.
« E allora? » 
« Non è stato difficile trovare un po’ di notizie su Internet, l’eglise di Saint Pierre et saint Benoit, puro stile romanico, nuda e cruda, nata per pregare e basta, non ci sono altari, non ci sono dipinti, niente affreschi, niente di niente… capisci cosa voglio dire? »
Calisi era esterrefatto, non riusciva a credere alle sue orecchie, ma chi era quello che gli stava accanto? Cos’è che pensava di lui? Ignorante come una scarpa? Ma era lui l’ignorante! Ignorante. E coglione anche!
« Sto dicendo che nessuno dà tutti quei soldi per un lavoretto liscio liscio… no? » 
Seguì un lungo silenzio.
« Lo so » 
Era consapevole che stava facendo una figura di merda con il Conte, era sempre stato lui il cervello, e il Conte il braccio. Adesso si sentiva un povero cretino che non era stato capace di vedere quello che agli altri era sembrato evidente… E questo era il meno… il più non lo sapeva ancora…
« Lo so, è da quando siamo partiti che ci penso, ma non riesco a capire perché. Perché farmi questo? Non c’è ragione, non ho mai pestato le scarpe e nessuno… »
La voce di Calisi sembrava diventare più stridula. Adesso aveva paura. Qualcuno lo voleva incastrare. Non sapeva chi, né perché, ma volevano fotterlo. 
« Ferma l’auto, torniamo indietro, non se ne fa più niente! »
« Come vuoi tu. »
Il Conte rallentò leggermente preparandosi a imboccare il primo casello.
«Aspetta » disse Calisi, con un tono diverso.
«No, non fermarti, prosegui. Fin qui non abbiamo commesso nessun reato… giusto?  Andiamo avanti, andiamo a vedere la chiesa,  l’arazzo. Poi ce ne torniamo a casa. Va bene? »
« Va bene. »






Capitolo tre
Perrecy les Forges



Il resto del viaggio proseguì in assoluto silenzio. Arrivarono a  Perrecy che il campanile della parrocchiale suonava le quattro del pomeriggio. Il paese sembrava deserto, arroccato su un lieve avvallamento, si sviluppava sul fianco destro dell’ antica chiesa di Saint Pierre et saint Benoit. Tutto era immobile, sembrava quasi un paese fantasma, non fosse stato per tre uomini che discutevano a bassa voce davanti all’entrata dell’unico bistrot del paese.
Il Conte si diresse verso la chiesa, con l’intenzione di fare un rapido giro del paese. Dopo qualche minuto fermò l’auto nel parcheggio dell’Hotel de la Poste.  Calisi scese dall’auto e si diresse verso la reception dell’albergo.
La mattina dopo, al termine della prima messa, Calisi e il Conte entrarono nella chiesa. Esisteva una sola navata laterale, quella di destra, che percorsero per intero, lasciando che il grosso dei fedeli defluisse dalla navata centrale. Arrivarono nei pressi dell’altare maggiore, in corrispondenza del transetto, l’arazzo, secondo le informazioni di Ranzo Ghedini, avrebbe dovuto trovarsi nella cappella a destra della tavola liturgica. Si avvicinarono con discrezione, dando il tempo ai chierici di lasciare l’altare. Quando tutti se ne furono andati superarono l’arco del transetto e si spostarono a destra, cercando con gli occhi la teca che conteneva l’arazzo. Sulla parete ovest, quella opposta allo sguardo di chi arrivava, ad un’altezza di circa due metri da terra era attaccata al muro una teca di legno scuro, tarlata e impolverata con un vetro sporco dal quale con difficoltà si vedeva l’interno. A occhio le dimensioni corrispondevano… poco più di tre metri per cinquanta centimetri. I due uomini si guardarono in giro, non c’era più nessuno nella chiesa. Calisi si avvicinò all’arazzo, il Conte alle sue spalle. Calisi tirò fuori dalla tasca una fotocamera, con la quale cominciò a scattare delle fotografie. Ma inutilmente, il flash della fotocamera rifletteva sul vetro della teca rendendo inutile ogni tentativo di ripresa. Il Conte, con un gesto deciso delle mani tolse una lente dai suoi Polaroid e glie la porse.
« Prova con questa » gli disse.
Non c’era nessun impianto di sicurezza, come era ovvio aspettarsi, e la semioscurità che avvolgeva l’edificio, avrebbe reso facile staccare dal muro la teca, sfilare l’arazzo e andarsene. Un lavoro da dieci minuti, non di più. La chiesa era deserta. La tentazione forte. Dopo alcuni minuti, abbandonarono la chiesa, all’esterno la nebbia avvolgeva tutto il paese. Entrarono in un locale che aveva una strana insegna “l’Armoricain”, scelsero un tavolo appartato e ordinarono due caffè. 
Qualche ora più tardi il Conte era alla guida della sua BMW per fare ritorno a casa.
Erano circa le quattro del pomeriggio quando arrivarono a Genova, in via Domenico Chiodo, davanti alla casa del Conte.
« Entra un attimo » disse il Conte a Calisi.
« No vado via subito » 
« Entra » insistette il Conte » ho qualcosa da farti vedere.
Entrarono, scaricarono i pochi bagagli e scesero nella cucina, il Conte spalancò le persiane della porta-finestra che dava sull’orto.
« Non c’è Marina? » chiese Calisi.
« No, è andata a Milano da sua madre, starà via qualche giorno »
« Ho fame, hai qualcosa da mangiare? »
« Certo » rispose il Conte «Accomodati, vengo subito »
Calisi si sedette sotto la pergola, quel posto era magico, riusciva ad allentare la tensione che lo aveva preso da quando erano partiti per la Francia. In fondo non era successo niente. Siamo tutti come prima, certo l’affare non c’è, non ci sono tutti quei soldoni, ma lui era lì, aveva la sua bottega, che andava benino, e poi c’era l’assicurazoine… Domani avrebbe chiamato Ghedini e avrebbe declinato l’offerta. Una scusa qualsiasi…
« Ecco – disse il Conte arrivando con la scatola dei formaggi, una pacco di gallette salate, una bottiglia di vino bianco e il portatile.
Calisi lo aiutò a disporre sulla tavola il formaggio, il vino. I bicchieri, le posate…
« Mi fai compagnia? »v
« Certo » rispose il Conte.
Cominciarono a piluccare del sardo fresco, mentre il Conte tirava il collo ad una bottiglia di Coronata.
« Belìn » disse Calisi stupito.
« Coronata, cooperativa vinicola di Monego. Un vino firmato Domenico Barisone… mica paglia » continuò ammirato Calisi. 
Il Conte era lusingato. Entrambi, forse per la prima volta, parvero godere della reciproca compagnia. 
Calisi bevve un sorso di Coronata, freddo di frigo, anticipando col fondo del palato il gusto decisamente sulfureo di quel vino raro.
« Buono, molto buono, e il fatto che ce ne sia poco in giro lo rende ancora più ricco, sapido… sei d’accordo?» 
« Ne ho ancora una dozzina di bottiglie in cantina, quando vuoi bagnarti il becco, non devi far altro che dirlo… »
Andarono avanti col vino, il formaggio e i grissini ancora per un po’ quando il Conte, aprì il suo portatile, smanettò per qualche secondo, e poi girò lo schermo verso Calisi… Questi faticò a capire di cosa si trattava, non riusciva a dare un senso a quella immagine che improvvisamente aveva davanti. Di colpo mise a fuoco era una ripresa dell’interno della chiesa di Perrecy… Guardò il Conte per avere una spiegazione di tutto questo.
« Sì, Perrecy. Mentre eri occupato a fare le foto, ho sistemato una piccola webcam all’interno di un foro nel muro, sai quelli che venivano lasciato dai costruttori per poter sistemare le travi di legno… In questo modo teniamo l’arazzo sotto controllo. Se c’è sotto una merda prima o poi qualche moscone ci si posa. »
Calisi era stupefatto, il Conte aveva mostrato di essere una persona molto diversa da quello che si poteva pensare. E quasi gli leggesse nel pensiero disse…
«Non sono una persona colta, non conosco tutte le cose che conosci tu, Giacomo » 
Per la prima volta da quando si conoscevano, lo chiamò col nome di battesimo. 
«Non ho cultura che non sia quella del saper vivere, del saper apprezzare il buon vino, il buon cibo, le belle donne. Ho imparato, col tempo, che saper stare al mondo significa stare un po’ sottotono, ma per il resto non sono proprio uno sprovveduto…
«Lo vedo» disse Calisi «lo vedo, anzi mi devo scusare se qualche volta… »
«Non c’è problema, sei sempre stato una persona corretta. Corretta ed educata. E questo mi  basta »
« E adesso che facciamo? »
« Aspettiamo. E mentre aspettiamo controlliamo la registrazione »
Con movimenti rapidi il Conte mandò avanti veloce la ripresa…
Il giorno dopo, Giacomo Calisi era concentrato nella lettura del Secolo XIX, seduto alla scrivania del suo studio, ricavato nel soppalco della sua bottega di piazza Fontane Marose, quando il cellulare squillò. Era il Conte.
«Tombola! Vieni subito stamattina all’alba a Perrecy qualcuno si è fatto vedere »
«Cazzo, si vede chi è? Lo conosciamo? Cos’ha fatto?» 
«Sarà meglio che ti muovi, comunque lo conosciamo. Sì, lo conosciamo… » 
«Chi è? »
«Giovanni Mangano, il braccio destro di Ranzo Ghedini »
Calisi prese la vespa e si buttò come un matto su per via Caffaro. Volò per la circonvallazione a monte ignorando del tutto il profumo dei tigli. In dieci minuti era in via Chiodo.
«Conte » esclamò ad alta voce, parcheggiando la vespa.
«Vieni, è aperto » rispose il Conte dall’orto.
Il portatile era sul tavolo della cucina, la penombra rendeva più nitide le immagini sullo schermo. Il Conte riavvolse fino al momento interessato, e poi premette play.
L’immagine fissa inquadrava la parete con l’arazzo con una angolazione di circa trenta gradi, in direzione dell’altare, in modo da avere una prospettiva maggiore, poi improvvisamente una figura entrò nella scena, inizialmente con fare circospetto, portava a tracolla un grosso contenitore cilindrico che sembrava avere un tappo con un automatico. L’uomo si girò intorno per accertarsi che non ci fossero telecamere o rilevatori volumetrici, e mentre dava le spalle all’arazzo la webcam gli inquadrò il volto, rivelando così la sua identità. 
Pausa, stop, rewind, eccolo. Era proprio il Mangano, quella mezza sega che faceva da lacché al Piccio.
« Il bastardo » disse Calisi. Il conte annuì in silenzio.
Nello stesso istante un’altra figura entrò nella scena, ma non sembrava nessuno di conosciuto. Entrambi nella luce fioca del mattino, si avvicinarono alla teca, la staccarono dal muro, e la posarono per terra. L’aprirono, estrassero il contenuto, che arrotolarono con cura. Tolsero dal grosso tubo il contenuto, e vi misero l’arazzo. Il Conte aumentò la velocità. I due uomini si muovevano come Ridolini, presero il loro rotolo, lo inserirono nella teca, la richiusero, e attaccarono tutto al muro. Fine. Tempo stimato, dieci minuti, non di più.
Fu Calisi a rompere il silenzio…
«Cosa vuol dire? »
«Non lo so… »
«Ricapitoliamo» disse Calisi «Ghedini mi incarica di portargli l’arazzo, e mi offre una cifra ragguardevole, per un lavoretto facile facile, Due giorni dopo, un suo scagnozzo sostituisce l’arazzo con una copia… »
« Oppure rimette a posto l’originale …»
Lo interrompe il Conte. Calisi volge lo sguardo stupito al Conte, che continuò…
« Ho solo avuto modo di rifletterci più a lungo. »
« Sì… in ogni caso non capisco. »
« Anche se… » proseguì Calisi. - Se quello che hanno rimesso a posto è l’arazzo buono, e non la copia… Adesso… noi abbiamo un alibi perfetto! »
Il Conte staccò gli occhi dal portatile e guardò con sodddisfazione Calisi.
«Già adesso andiamo, ce lo prendiamo e facciamo avere alla Gendarmerie il video della chiesa… Perfetto »
Beh,» intervenne Calisi «proprio perfetto non sarà, qualcuno potrebbe chiedersi chi ha messo una webcam nel transetto di Saint Benoit, ma con un furto conclamato, e la foto dei ladri, voglio vedere gli sbirri francesi con chi se la prendono… senza contare che per tutti l’arazzo è sparito, e… hai visto mai che nel frattempo possa aumentare di valore? »
« Tutto questo se lì c’è l’arazzo buono… e se invece c’è la sòla? »
« Mandiamo comunque il video alla Gendarmerie, con tanto di nome, cognome e indirizzo del bastardo, saranno loro a prenderlo. Di noi nessuno sa niente… O no? » 
« In questo modo l’affare va a monte »  Continuò Calisi – ma va a monte per tutti, con buona pace di chi ha architettato tutto. »
« Bene, - disse il Conte – festeggiamo allora, poco prima che arrivassi ho preso della focaccia… Pigato va bene? » 
« il Pigato va bene, Conte… va molto bene. »
In quel momento squillò il telefono, era Marina. Il Conte era visibilmente contento di sentirla, abbassò leggermente il tono della voce, e con il cordless si diresse verso l’orto. Dopo qualche minuto ritornò, allegro, con in mano una bottiglia di Pigato, vittima sacrificale di quel momento di euforia.
« Ieri sera ho fatto il baccalà con i pinoli, resta qui a mangiare» disse il Conte.
« Grazie Conte, così mi vizi. Come sta Marina? »
« Bene, domani torna, mi manca quando non c’è, anche se non sono in casa… -
« Da vero maschilista… donna onesta a casa resta » disse ridendo Calisi.
« E’ vero, sono un po’ maschilista, ma non ho mai approfittato di lei, mai, non le ho mai dato uno schiaffo, ed ho sempre rispettato le sue decisioni anche se non ero d’accordo. Credo che, nel corso di questi anni, qualche libertà se la sia presa anche lei… - disse abbassando lo sguardo, improvvisamente triste – ma se si tratta solo di un momento… va bene così… »
Il livello di confidenza tra i due era al massimo storico.
« Marina... » continuò il Conte - la vedi com’è, bella, sensuale, sembra vivere per far dannare gli uomini, a lei piace provocare… ma è solo il vestito, sotto è una donna. Capace di sentimenti profondi… » 
« Tu lo sai com’è – disse Calisi – per me è affascinante, ma tutto finisce lì. Ti invidio Conte, non ti invidio la tua compagna, ma come riesci a apprezzarla … »
Adesso Calisi cominciava ad essere un po’ a disagio in quell’atmosfera sentimentale, era un po’ troppo, e cambiò discorso.
« E a fugassa? » 
« A l’ariva » disse il Conte deponendo la focaccia sul tagliere e tagliandola a striscette. La focaccia era squisita, bassa, bella unta d’olio, con qualche grano di sale grosso ancora visibile. Faceva sbavare. Mentre il Conte tagliava la focaccia, Calisi versò due calici di Pigato. 








Capitolo 4
Milano, via Bonfadini
Nel negozio di Salita Santa Caterina, il telefono squillava...
«Pronto?»
«Buongiorno, sono Sandra Gaggiolo, la segretaria della signora Baselli... Parlo con il dottor Calisi?»
«Sono io, buongiorno... » Il sistema limbico di Calisi si mise in allarme... «Anche la Baselli Cardoni adesso...»
«Posso fare qualcosa per lei?»
«Le passo la signora Baselli»
Calisi rimase in attesa per qualche secondo, durante i quali provò a ipotizzatre dei collegamenti fra la vecchia carampana e tutto quello che era successo nei giorni prima. Il bello di vivere nell’orbita esterna dei grandi mercanti d’arte, era che potevi condurre una vita relativamente tranquilla, abbastanza lontano dalle rogne e da gente come Ghedini o la Baselli Cardoni. 
Dopo qualche secondo...
«Buongiorno Calisi, come sta?»
«Buongiorno signora, sto bene grazie, e lei? E’ parecchio che non ci vediamo»
«Calisi, mi scusi se salto i convenevoli, ma non ho molto tempo... sa, da buona milanese sono sempre di corsa»
«Non si faccia dei problemi, la prego...»
«Calisi, mi ascolti bene e non mi interrompa»
Calisi era sempre più a disagio, il tono usato dalla Baselli Cardoni, lo schiacciava, come sempre. Questa volta poi anche l’alone di mistero... Cos’era, un thriller?
«Ho saputo che recentemente ha ricevuto la visita di Ranzo Ghedini. Quel ciccione ha addirittura alzato il culo per venire da lei a Genova, evidentemente doveva avere molta urgenza. Comunque...»
Giacomo Calisi dava sfogo il suo disagio martoriando con le unghie una piccola scultura d’avorio che era sulla sua scrivania.
«Mi permetta, Giacomo...» Continuò la Baselli Cardoni usando un tono più confidenziale «Mi permetta di metterla in guardia, il Ghedini non mi è mai piaciuto, lei lo sa... e i suoi modi meno che meno. Certo non sono mica una benefattrice, e non mi aspetto che prenda questa telefonata per un gesto di affetto. Credo solo che i maneggi di quel romano, questa volta, coinvolgano anche me. Non so ancora in che modo, ma sono quasi certa che nei progetti del Ranzo ci sia spazio anche per la mia persona... E questo mi mette a disagio. Mi capisce?»
Calisi la interruppe.
«Mi scusi ma non capisco bene a cosa si riferisce...»
«Calisi per favore!» Disse irritata la vecchia signora...
«Non l’ho chiamata per farle un favore, mi sto semplicemente parando il culo. E’ chiaro adesso? Bene se adesso ha la bontà di non interrompermi le spiegherò cosa voglio da lei...»
Giacomo Calisi fu sommerso da una fiumana di parole, che in buona sostanza, altro non erano altro che la preoccupazione dell’antiquaria e i suoi propositi di vendetta. La donna, non si sa come, era al corrente della visita del Piccio, ma non delle parole che si erano scambiati. Sapeva del viaggio in Francia e della sua collaborazione con il Conte.
«... quindi occorre che lei mi metta al corrente di tutto quello che le ha raccontato quel porco di Ranzo Ghedini. Anche nel suo interesse. Mi ha capito?»
Con la cornetta all’orecchio, Giacomo Calisi aveva lo sguardo perso all’esterno della sua bottega... 
Dall’altro lato di Salita Santa Caterina, proprio davanti al suo negozio c’era un’antica farmacia, una delle poche rimaste a Genova con ancora l’arredo in noce intarsiato, e sugli scaffali i vasi in ceramica di Albissola dedicati alle piante medicinali. All’interno, come un servo di scena, si muoveva un pò curvo ma sicuro nel suo habitat, il commesso del farmacista, un vecchio pederasta, che tutti conoscevano come Robertino. Non gli era mai piaciuto quel vecchio finocchio, ma almeno formalmente, era sempre stato gentile. 
Chissà se era proprio lui che lo aveva spiato, e che si era preso la briga di chiamare la vecchia carampana... Magari ricevendo tutti i Natali un piccolo presentino... Chissà...
La donna milanese mise fine al suo sproloquio, fissando in appuntamento a Milano, presso uno dei suoi magazzini. 
«Nel suo interesse Calisi. Nel suo, ma principalmente nel mio... ha ha ha...» Concluse la donna.
Appena riagganciato Calisi chiamò il Conte e lo mise al corrente della telefonata. Decisero di andare insieme, il giorno dopo,  all’appuntamento con la Baselli. L’indirizzo era di una zona periferica della città, via Bonfadini 44, vicino alla tangenziale, uscita CAMM. 
Quando il Conte imboccò l’uscita della tangenziale est di Milano, erano quasi le sette, avevano lasciato Genova con le nuvole, e invece lì c’era il sole, che ora cominciava lentamente a tramontare... Il navigatore satellittare indicò senza indecisione la direzione, e in pochi minuti si trovarono in un’altra Milano, un quartiere fantasma, ma con un fascino sinistro. Una zona sconosciuta ai più, dimenticata da Dio e dagli uomini, e soprattutto dagli uomini dell’amministrazione della città. La zona era periferica ed estremamente degradata, un cul de sac chiuso tra la tangenziale, le ferrovie e il mercato ortofrutticolo. Una strada di periferia, disegnata da una teoria di case abbandonate e vecchie fabbrichette ormai in disuso. Scheletri di un cimitero degli elefanti, dove un’umanità residuale che si animava al tramonto, trovava occasionalmente alloggio e nutrimento. L’habitat ideale per malfattori della peggire specie. 
Evidentemente il magazzino era il luogo giusto a contenere merce molto particolare... e incontri molto riservati.
Il Conte rallentò l’andatura, un pò per dare a Calisi modo di trovare il n. 44, e un pò per guardare quello spettacolo di disfacimento, di morte civile, di casamenti che, in un tempo neanche troppo lontano, avevano ospitato persone, famiglie, e anche operai, che lavoravano, producevano per quella parte di piccola industria, che aveva contribuito alla ricchezza della città... 
Le cose, come gli uomini, quando non servono più... si buttano, o si lasciano morire nell’anonimato di un’area dismessa della mente collettiva. E davanti agli occhi di Calisi e del Conte, nell’imbrunire di una città troppo indaffarata per pensare alle sue robe vecchie, si disegnava uno spettacolo crepuscolare e fantascentifico, dove man mano che la luce del sole abbandonava quei posti, pochi esseri umani cominciavano ad abbandonare i loro rifugi. 
«Ecco il 44» disse Calisi. Il Conte rallentò ancora fino a fermarsi, e improvvisamente, dall’androne buio della casa che avevano davanti, emerse un uomo, che pareva da tempo doveva aver rinunciato alla sua umanità. L’uomo si avvicinò, abbassandosi al livello del finestrino.
«Calisi, è lei?» disse, con un forte accento slavo. Era alto circa un metro e settanta, corporatura media, capelli scuri lisci appiccicati sulla fronte sudaticcia, occhi scuri e una cicatrice che partiva dalla bocca e sfumava verso l’orecchio sinistro. Portava un paio di jeans azzurri e un giubbotto di pelle nera che aveva visto giorni migliori.
«Sono io...» rispose Calisi
«Venite dentro»
Il Conte era visibilmente preoccupato per la sua BMW, e lo slavo parve leggergli il pensiero...
«La macchina è guardata» disse accennando con la mano ad un ragazzino che era comparso anche lui dal nulla.
Scesero dall’auto e seguirono l’uomo su per una rampa di scale, appena illuminata da un neon agonizzante. Il primo piano di quella costruzione, che doveva essere stata una piccola fabbrica degli anni ‘30, era un unico locale con le finestre alte e i pilastri quadrati che reggevano il piano di sopra. Il pavimento di cemento era dipinto di una vernice rossa. Tutto sommato l’ambiente era pulito, anche se non si può dire che fosse accogliente. Il locale, che era lungo circa cinquanta o sessanta metri, era organizzato in grossi box fatti di un telaio di ferro e rivestiti di medium density, il primo, il più grande aveva anche due piccole finestre e una porta, e la luce, dentro era accesa.
« La signora la aspetta là... » disse lo slavo indicando con la testa il box illuminato. Nello stesso istante la porta del box si aprì e comparve la Baselli Cardoni, con tutta l’imponenza del suo metro e ottanta...
«Laszlo...» disse la vecchia con calma e finto charme
«... accompagna i signori» Laszlo fece in cenno di assenso con la testa e precedette i due uomini all’interno del box. L’ interno di quella scatola, contrastava con lo spazio esterno. La luce di due lampade a stelo era calda e giallognola, la moquette color tabacco foderava il pavimento e le pareti, e l’arredo era costituito da una scrivania di mogano primi ottocento, da due poltroncine di Cassina un tappeto anatolico, e uno schedario bianco, moderno.
«Accomodatevi» disse la donna, sedendosi dietro la scrivania.
Ai tempi doveva essere stata una gran bella donna. Alta giunonica, con i capelli bianchi e neri che ricordava Crudelia Demon, la Baselli Cardoni era approdata all’antiquariato dopo la morte del marito, anche lui antiquario, avvenuta vent’anni prima. Quella che era una modesta attività di dimensione cittadina, nel giro di pochi anni, era stata trasformata dalla donna in una fiorente attività imprenditoriale di dimensioni nazionali. Con solidi legami commerciali anche oltralpe. Qualcuno avanzava l’ipotesi di relazioni occulte e potenti, ma erano soltanto voci. La Baselli Cardoni non era mai stata coinvolta in affari poco chiari, e aveva alle spalle lo studio legale Barabino & Partners, e questo a Milano era tutto dire...
Mentre Calisi e il conte si accomodavano nelle poltroncine, Laszlo rimase inpiedi in un angolo.
«Laszlo, caro... puoi andare. Grazie» disse la donna «Mi fa piacere che siate venuti subito»