martedì 27 settembre 2011

Ciò che sei








Ciò che sei non lo hai mai saputo,
sei stato come assopito durante tutta la vita,
le tue palpebre sono rimaste socchiuse tutto il tempo,
ciò che hai fatto già torna in guisa di sberleffi,
gli sberleffi non sono te,
sotto di loro.... e... dentro di loro ti scorgo in agguato.
Walt Whitman

lunedì 26 settembre 2011

LA RAFFIGURAZIONE DEL CAVALLO NELLE TOMBE TANG

di Caterina Brunelli
 
           
fig. 1 Statuina tombale Tang raffigurante un giocatore di polo
 
 
Chang’an (oggi Xi’an), città posta tra due affluenti del fiume Wei, fu per più di 280 anni la capitale della dinastia Tang (618-907), arrivando ad avere più di un milione di abitanti[1].
A partire dagli anni ’50 nelle campagne che circondano questa città sono state scavate almeno 20 tombe appartenenti a personaggi della famiglia reale, come i mausolei degli imperatori Taizong (599-649) e Gaozong (628-683)[2], a principi, principesse e uomini di corte.
Tutte queste sepolture presentano una serie abbondantissima di dipinti parietali che, anche se inevitabilmente danneggiati dal trascorrere del tempo e dagli agenti di erosione, rappresentano tuttora una delle maggiori realizzazioni dell’arte cinese per varietà di soggetti rappresentati e abilità di esecuzione tecnica.
Le pitture, ispirate dalla prosperità economica e sociale che la Cina dei Tang conobbe per un lungo periodo, riflettono più o meno direttamente la personalità, lo stato sociale e le esperienze di vita del proprietario della tomba; i soggetti preferibilmente rappresentati sono quindi attività ricreative, scene di polo o di caccia, addomesticazione di animali selvaggi, cortigiane intente nella tessitura della seta o nell’uso di strumenti musicali, il tutto eseguito con uno stile fortemente realista.[3]
 Del resto l’arte Tang è indiscutibilmente caratterizzata da razionalismo, vigore e dignità; è l’arte di un popolo che finalmente godeva di prosperità e serenità. E’ un ottimismo di fondo, una grande energia e una profonda accettazione di una realtà tangibile che da all’arte Tang un carattere unitario, sia che si parli appunto dei magnifici dipinti tombali che delle opere create dalla mano dell’artista più umile.
Il cavallo, a volte fiancheggiato da cavalieri e carri dalle alte ruote[4], appare di frequente in questi dipinti; anche nelle scene di caccia troviamo composizioni su larga scala in cui orde di cavalli, accuratamente modellati e vividamente colorati, sono disposti irregolarmente sullo sfondo di montagne ed alberi mentre galoppano al grido dei cavalieri che li montano.
Ogni elemento presenta caratteristiche individuali, e le posizioni trasmettono un’impressione di movimento. Forme e colori sono autentici, anche se i contorni vengono solitamente giudicati sommari. Notevole la capacità degli anonimi artisti di aver saputo cogliere le varie fasi del galoppo, come anche la scelta di rappresentare i cavalieri chini sul collo dei cavalli.
In parecchie scene troviamo anche la rappresentazione del gioco del polo, sport introdotto in Cina dalla Persia attraverso la via della Seta, che godeva di enorme popolarità presso la nobiltà Tang.[5]
La frequenza con cui vediamo rappresentate tali scene è indicatrice degli scambi culturali e delle relazioni commerciali che esistevano tra la "terra di mezzo" e le regioni occidentali, e possiamo dedurre dalla vividezza che traspare all’occhio dell’osservatore che il pittore era probabilmente egli stesso un amante di questo sport.
I cavalli in corsa si muovono con andamento circolare per permettere ai giocatori di conquistare la palla; per quanto invece riguarda i cavalieri, alcuni sferzano la propria cavalcatura, altri si limitano ad aspettare immobili che la palla prenda la loro direzione. Abbiamo quindi un effetto contrastante tra fattore "dinamico" e "cinetico": da una parte un’atmosfera eccitante, dall’altra una semplice occasione di ozio e svago.
Le pitture parietali delle tombe Tang rivelano la marcata presenza di minoranze etniche, soprattutto nelle regioni attorno a Xi’an e Luoyang.
 I "barbari" (hu, termine generico utilizzato dagli Han per indicare le popolazioni non-cinesi) introdussero nel nord della Cina, nei primi 50 anni di dominio Tang, la loro musica, i loro usi e costumi, i loro cavalli[6].
 Conseguentemente appare del tutto naturale ritrovare questi elementi anche all’interno delle sepolture, sia sotto forma di pitture che, più frequentemente, di statuine funerarie.
 La solidità e l’espansione conseguite dall’impero Tang dovettero molto all’estrema efficienza e alla mobilità dei loro eserciti, i quali, a loro volta, si servivano dei rinomati e pregiatissimi cavalli del Ferghana, amatissimi dalla nobiltà e dagli imperatori in particolar modo, destrieri di cui si diceva "sudassero sangue". I modelli in ceramica prodotti per le tombe, che spesso presentano la tipica colorazione Tang sancai o "tre colori"[7], sono appunto indicatori dell’altissima considerazione in cui questi animali venivano tenuti, come ci dimostra l’esemplare di fig.2.
 
                    fig. 2 Cavallo Tang sancai
 
 Fra le tante sepolture nobiliari Tang, quelle dove il cavallo viene raffigurato un maggior numero di volte sono le tombe di Li Shou, Li Zhongrun e Li Xian.

Li Shou (577-C630), conosciuto anche col nome di Shen Tong, era imparentato con l’imperatore Tang Gaozu (566-635). Durante la vita gli vennero conferite numerose onorificenze per i suoi meriti in campo militare; a fianco dell’imperatore Taizong sconfisse il rivoltoso Liu Heita (m. 623), il che gli consentì di ottenere il titolo di Primo Generale. Dopo la morte venne onorato con il nome postumo di Li "il Pacifico".[8]
Alla sepoltura, situata nel villaggio di Jiao nello Shaanxi, si accede tramite un ingresso collegato ad un corridoio dotato di prese d’aria; uno stretto passaggio conduce poi alla camera sepolcrale, decorata da un gran numero di pitture parietali tra le quali la più notevole è senz’altro la raffigurazione di una spedizione a cavallo.
Cavalli e cavalieri sono divisi in gruppi, ognuno composto da almeno quaranta elementi. I destrieri, dipinti in colori diversi, vengono colti mentre galoppano a comando e lasciano trasparire forza ed impeto. Gli stendardi rossi sventolano all’aria, i cavalieri tengono saldamente le redini mentre incitano le loro cavalcature alla corsa, e il tutto conferisce alla scena vitalità e potenza, rivelando al contempo il temperamento agguerrito e fiero che deve aver caratterizzato lo stesso Li Shou in battaglia[9].
La superficie interessata è decorata da un motivo di quarantadue cavalli e quarantotto figure umane. I cavalieri indossano vesti bianche o color porpora, stivali neri, cintura e copricapo in linea col gusto Tang, e nelle mani tengono strette le redini mentre fanno sventolare vessilli augurali.
 Evidente l’immediatezza della scena: i cavalli sono pronti a partire al galoppo, alcuni cavalieri voltano la testa in attesa di direttive.
Particolare rilievo è conferito al dettaglio incentrato su di un possente destriero bianco attorniato da sette attendenti: di proporzioni maestose, accuratamente sellato e bardato, doveva con ogni probabilità appartenere al capo. Gli attendenti, probabilmente dei servitori, portano dei ventagli ed un parasole.[10]
In posizione superiore rispetto a questa rappresentazione è possibile ammirarne un’altra che riproduce invece una scena di caccia, uno degli intrattenimenti preferiti dalla nobiltà Tang (fig.3).
 
        fig. 3 scena di caccia dalla tomba di Li Shou
 
 La raffigurazione, che ha luogo in una vallata, è estremamente vivace, realistica[11] e dipinta con una naturalezza tale da farci pensare che lo stesso pittore fosse uso a questo genere di attività.
I cavalieri, a dorso dei migliori purosangue delle Regioni Occidentali, sono colti nell’atto di accerchiare e prendere in trappola le loro prede, che somigliano a conigli e cinghiali. Colpisce particolarmente l’accortezza dimostrata dall’artista nell’aver saputo cogliere le espressioni facciali, la tensione e il senso di eccitazione che pervade tutta la scena.
Notevole inoltre la caratterizzazione del cavallo, che appare in tutta la sua possanza e agilità, lanciato al galoppo con gli zoccoli levati da terra: sono proprio questi fattori che rendono gli affreschi della tomba di Li Shou dei capolavori senza precedente, sia nello stile che nella scelta dei personaggi.


[1] La città in questo periodo seguiva un modello topografico a scacchiera, vantava un’attività commerciale fiorente e costituiva un crocevia per gli scambi culturali con paesi stranieri; da qui partivala Via della Seta che, snodandosi per ben 6400 km, si dirigeva verso est raggiungendo la costa orientale del Mediterraneo attraverso lo Shaanxi, il Gansu e il Xinjiang, l’altopiano del Pamir, l’Asia Centrale ed Occidentale. Oltre a Chang’an, altri centri metropolitani di epoca Tang come Luoyang e Yangzhou sembravano progettati a tavolino: i principi di regolarità e simmetria già in vigore in epoca Han vennero estesi a conglomerati di dimensioni maggiori, e ancora oggi sono riconoscibili nella pianta della città imperiale di Beijing. Le città di solito presentavano un impianto rettangolare, in armonia con la città ideale descritta nello Zhouli (il "Libro dei riti Zhou"), ed era attraversata da un reticolato di strade fra loro perpendicolari o parallele. La capitale si suddivideva in diverse zone: a nord aveva sede la città imperiale cinta da mura e circondata da edifici governativi, ed attorno ad essa si sviluppava quella esterna con i quartieri residenziali per il popolo. Ad ovest e ad est si trovavano due mercati dove confluivano le attività commerciali ed artigianali, mentre l’asse nord-sud divideva la città in due metà identiche. I quartieri (fang) ospitavano abitazioni e templi; ognuno era cinto da mura  e servito da viali alberati larghi dai venti ai quaranta metri. Il popolo poteva frequentare per tutto l’anno un giardino imperiale posto all’interno della città. Cfr. Fahr-Becker G. (a cura di), Arte dell’Estremo Oriente, Milano, 2000, p. 121.
[2] Particolarmente interessanti sono le statue di pietra calcarea poste lungo le shendao che conducono ai mausolei imperiali. Qianling, la tomba dell’imperatore Gaozong e di Wu Zetian, offre la riproduzione più fedele di quella che doveva essere la tipica "Via dello Spirito" di epoca Tang: appaiati a due a due si susseguono colonne, cavalli alati, bassorilievi con uccelli o cavalli sellati e montati, e ancora statue di funzionari e pilastri. Elemento comune a tutte le raffigurazioni è la loro staticità: i dettagli minori non vengono delineati come anche l’impianto muscolare. Le zampe dei cavalli appaiono corte, in quanto la distanza ridotta tra il corpo dell’animale ed il piedistallo su cui poggiava poteva garantire maggiore stabilità alla statua, altre volte invece lo stesso spazio viene riempito con un motivo di nuvole, altro espediente volto alla medesima finalità ma mascherato come fosse un elemento decorativo. Ivi, pp. 126-127.
[3] Cfr. Zhang H., A Collection of  China’s Tang Dynasty Frescoes, Lingnan, 1995, p. 16. Il lusso raffinato, di cui gli ambienti di corte godettero nella prima metà dell’VIII sec., può essere paragonato soltanto a quello che aveva caratterizzato la dinastia Han, per cui non meraviglia il fatto che temi come quelli sopra riportati fossero piuttosto consoni a quel periodo. Ma al di la’ della raffigurazione di cavalli o battute di caccia, erano soggetti come le dame di corte impegnate in dolci occupazioni che più di ogni altra cosa compiacevano la corte brillante ed edonistica Tang.
[4] Nei dipinti murali delle tombe Tang questo tipo di carro, in uso presso le minoranze della Cina nord-occidentale, si riscontra negli affreschi all’interno della sepoltura di Li Zhen, molto simili a quelli della tomba di Arshnar-Zhong, esponente della gente Huihe, risalente all’inizio della dinastia Tang. Ivi, p. 17.
[5] I modellini funerari in ceramica (fig.1) che rappresentano giocatori di polo sono abbastanza rari, ma d’altra parte la popolarità di questo svago è attestata dall’abbondanza di pitture murali nelle tombe dei membri della famiglia reale, come quella che raffigura il principe Zhang Huai nell’atto di cimentarsi in questo sport. Cfr. Capon-Forman, La Cina dei Tang: Civiltà e Splendori di un’Età d’Oro (618-906), Novara, 1990pp. 80-81.
[6] Ciò è ricordato nel poema di Yuan Zhen: "Da quando i barbari sono dilagati nella piana centrale, Xianyang e Luoyang sono state sopraffatte dal loro odore e dalla loro lana. Le dame sono state contagiate dalla moda di vestire alla loro maniera, le musicanti si esibiscono in melodie barbariche. Come può una primavera durare felicemente e a lungo nelle profondità dell’acqua e sotto un sole tagliente?". Cfr. Zhang H., op. cit., p. 17.
[7] Le ceramiche sancai venivano rivestite da una coperta a base di ossido di piombo, cotta alla temperatura di 750° C- 800° C circa. Ilsancai presenta una tipica gamma di colori: verde, giallo, blu, ocra, nero e rosso; la coperta è lucida e brillante, impiegata negli arredi tombali delle sepolture di principi e nobili. Le statuine a "tre colori" potevano presentare anche decorazioni in oro, come quelle scavate nelle tombe del principe Yide e della principessa Yongtai. Cfr. Ye Z., Ceramiche Cinesi, Parma, 2000, p. 7.
[8] Cfr. Zhang H., op. cit., p. 21. I tratti essenziali della vita di Li Shou sono riportati all’interno della biografia di Shen Tong, re di Huai An, compresa negli Annali della Dinastia Tang.
[8] Cfr. Zhang H., op. cit., p. 21. I tratti essenziali della vita di Li Shou sono riportati all’interno della biografia di Shen Tong, re di Huai An, compresa negli Annali della Dinastia Tang.
[9] I dettagli riprodotti in questa sede si riferiscono alle raffigurazioni dei muri occidentale ed orientale che portano alla camera funeraria, ed occupano una superficie pari a quattordici metri di lunghezza per un’altezza di circa un metro e mezzo. Ibidem.
[10] Il parasole, pieghevole o a più strati, è conosciuto in Cina da duemila anni; veniva tenuto aperto sulla testa dei dignitari e, soprattutto tra le minoranze etniche della Cina meridionale, divenne ben presto simbolo di potere e integrità. In questo contesto è destinato alla stessa autorità cui appartiene il cavallo. Cfr. Eberhard W., Dizionario dei Simboli Cinesi, Roma, 1999, p. 225.
[11] Il realismo che caratterizza tutta la produzione artistica Tang, in pittura come in scultura o nella produzione di statuine per il corredo funebre, può essere considerato come l’immediata conseguenza del realismo visivo e psicologico affermatosi nel periodo immediatamente precedente delle Dinastie del Nord e del Sud. Cfr. Capon-Forman, op. cit., pp. 107-108.

domenica 25 settembre 2011

Sono soddisfatto...

«Sono soddisfatto dal corso preso dalla mia vita. È stata ricca e mi ha dato tanto. Non mi sono accadute che cose inaspettate. Molto avrebbe potuto essere diverso se io stesso fossi stato diverso. Ma tutto è stato come doveva essere, perché tutto è avvenuto in quanto io sono come sono».

Carl Gustav Jung

venerdì 23 settembre 2011

Il racconto fenicio

Il racconto fenicio, anzi, "un qualcosa di fenicio", è un mito di fondazione, che si differenzia dai miti narrati dai poeti perché è artificiale e dichiaratamente falso, tanto che Socrate lo espone con esitazione e vergogna. [414e] La sua funzione è la legittimazione della gerarchia politica, prima per i governati e, dopo una generazione, anche per i governanti.

Cercherò di persuadere prima gli stessi governanti e i soldati, poi anche il resto dei cittadini, che tutta quell'educazione fisica e spirituale che noi davamo loro, essi credevano di sentirla e di riceverla, ma non erano che dei sogni; e veramente allora essi si trovavano entro la terra, già plasmati e allevati, essi stessi, le loro armi e tutto il resto del loro equipaggiamento. E quando in ogni dettaglio fu ultimata la loro preparazione, la terra loro madre li mise alla luce: ora essi sono tenuti a provvedere e a difendere la terra che abitano come se fosse la loro madre e nutrice, se qualcuno l'assale, e a considerare gli altri cittadini come fratelli e "nati dalla terra"... [414d-e]
Continuando il racconto, diremo loro così: voi tutti nella polis siete fratelli, ma il dio, mentre vi plasmava, a quelli di voi che hanno attitudine al governo mescolò, nella loro generazione, dell'oro, e perciò altissimo è il loro pregio; agli ausiliari, argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani. Per questa generale comunanza di origine, dovreste generare flgli per lo più simili a voi; ma c'è caso che da oro nasca prole d'argento, e da argento prole d'oro, e così reciprocamente nelle altre nascite. Perciò il dio ordina prima e particolarmente ai governanti di non essere di nessuno tanto buoni guardiani e di non custodire nulla con tanto impegno quanto i figli, osservando attentamente quale fra questi metalli si trova mescolato nelle anime loro; e se uno stesso loro figlio ha in sé alla nascita bronzo o ferro, di non averne nessuna pietà, ma di usare alla physis il riguardo dovutole e di respingerlo tra gli artigiani; e reciprocamente, se da costoro nascono figli che abbiano in sé oro e argento, di rendere loro gli onori dovuti e d'innalzare questi ai compiti di custodia, quelli ai compiti di difesa; perché esiste un oracolo per cui la polis sia destinata a perire, quando la sua custodia sia affidata al guardiano di ferro o a quello di bronzo. [415a-c]


Nel primo volume di The Open Society and Its Enemies (1945), Popper ribattezza questo racconto, con una assonanza nazista, come il "mito del Sangue e del Suolo", e lo interpreta come una prova del razzismo e del totalitarismo di Platone. Il Socrate platonico, tuttavia, ha cura di precisare che il racconto fenicio, con il suo insistito esotismo, è una menzogna, vergognosa, ancorché nobile.

Perché Socrate racconta un mito dichiaratamente falso?

Il racconto fenicio è una curiosa anomalia, proprio perché si precisa che è una artificiosa menzogna. Platone non era affatto obbligato a far compiere al suo Socrate questa precisazione: per esempio, nel Gorgia, il mito delgiudizio dei morti viene trattato come un logos con l'apparenza di mythos; il mito dell'anello di Gige, o anche quello narrato all'inizio del Protagora, sono invece espedienti per rendere immaginosamente un argomento razionale. Platone avrebbe potuto scegliere di trattare in modo analogo anche questa storia così fenicia.


Contro Trasimaco, Socrate deve dire che il soggetto morale da lui presupposto non è un dato naturale, ma un prodotto dell'educazione. Il racconto fenicio, pertanto, deve essere falso perché fa rispuntare dalla terra un'idea di natura umana che contrasta con il carattere determinante dell'educazione per la formazione del cittadino. Franco Trabattoni (Platone, Carocci, Roma, 1998, p. 188) sostiene che il contenuto del mito è anti-aristocratico: l'aristocrazia non è quella della nascita o della ricchezza, ma quella fornita da attitudini che ci sono date, e che possono essere in contrasto con la classe sociale che ci ha generato. Un agricoltore può avere come figlio un uomo d'oro, e un filosofo può essere padre di un uomo di ferro. In questa prospettiva, l'espediente retorico della nascita dalla terra e della conseguente "naturalizzazione" dell'educazione dovrebbe essere finalizzato a far "digerire" una simile idea a un uditorio portato a trovarla inaccettabile: si pensi, ad esempio, al significato sociale della parola physis. Se confrontiamo il racconto fenicio con l'apologo di Menenio Agrippa, un patrizio meno eterodosso di Platone, possiamo effettivamente renderci conto che quest'ultimo è orientato in senso assai più organicistico e gerarchico. Menenio Agrippa dà per scontato sia che l'organismo sociale esista, sia che, al suo interno, i plebei, e proprio loro, debbano essere mani asservite a stomaci patrizi.

Il Socrate della Repubblica propone un modello unitario di soggetto morale, che vale addirittura sia per il singolo uomo, sia per la polis, ma il suo mito artificiale introduce una gerarchia basata sull'inclusione e sull'esclusione in base a caratteristiche innate. In primo luogo, infatti, i cittadini vengono distinti dagli altri esseri umani, in quanto solo essi possono dirsi nati dalla terra. In secondo luogo, la gerarchia tripartita si basa su differenze fortissime e irrevocabili: il racconto fenicio della nascita e della fondazione vede le differenze fra le tre classi tanto ineluttabili e determinate quanto la costituzione materiale degli oggetti: come una cosa forgiata col bronzo non può diventare d'oro, così chi è nato artigiano non può diventare filosofo. La graduatoria di valore dei metalli con i quali gli individui vengono plasmati è giustificata solo dalle preferenze del dio demiurgo e dal fatto che gli uomini stessi condividano tali preferenze. Si potrebbe pertanto concludere che un ideale di autonomia viene attuato nella forma di una società gerarchica e soggetta alla manipolazione, ancorché ostile all'aristocrazia come veniva tradizionalmente intesa.

Lo spessore semantico del mito in Platone mi induce a suggerire un'altra ipotesi: il racconto falso serve a far capire che ogni ideale di autonomia, quando pretende di rispecchiarsi in una incarnazione storica, acquisisce un carattere ambiguo e ingannevole. Il regno della libertà realizzata, proprio in quanto si pretende tale, e produce i suoi propri miti fenici, è il più grande nemico delle libertà possibili.
Da una parte, l'autonomia non è una cosa che spunta dalla terra, ma si conquista in un lungo e doloroso processo di educazione e di confronto con gli altri; dall'altra, ogni immagine sociale e politica dell'autonomia così conquistata è una, pur necessaria, limitazione, e richiede una forma di manipolazione; dunque, per così dire, è una bugia. Per questo Trasimaco non può mai veramente essere messo a tacere.
La menzogna di Socrate è nobile, proprio perché ci rende avvertiti di questo aspetto problematico, che esiste perfino in una polis costruita nei discorsi. Sarebbe stato assai più ignobile trattare il racconto fenicio come una storia vera, in modo da conservare una reputazione di onestà intellettuale che non necessariamente - o quasi mai - coincide con l'essere davvero onesti.
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Maria Chiara Pievatolo © 1998-2000  Torna all'inizio di questo documento