martedì 1 maggio 2012

La vita a Scicli era diversa...


La vita a Scicli era diversa, diversa da qui, diversa da adesso. La noia a Scicli faceva parte dell’arredamento, come una tappezzeria, come uno sfondo da fotografo, il cui colore finiva per tingere un po’ tutte le esperienze della vita quotidiana. Forse dovrei togliere quotidiana. La vita a Scicli era in qualche modo un po’ colorata… Ma non c’erano i gialli, mancavano i rossi, i verdi, e anche di notte mancavano i blu. Che belli i blu… 

I colori di Scicli erano stinti, slavati un po’ grigi. E’ come se fossero colori mescolati con la terra, col fango con la malinconia… Impastati con l’assenza di felicità, senza tempo, in un susseguirsi di giorni poco dissimili, tutti uno in fila all’altro, con lievi variazioni, come il paesaggio nell’ora d’aria dei galeotti. Condannati a non vedere i colori, a non sentire i rumori, i sapori di una vita diversa… magari migliore. Anzi certamente migliore. 

Eppure bastava poco, bastava allontanarsi un po’, per vedere… A parte che poi, quando ritornavi a casa, a Scicli, la sofferenza aumentava. Perché avevi visto qualcos’altro. Forse migliore. Anzi certamente migliore. 

Ma prima di capire che bisognava uscire dal quel cerchio stregato, ce n’è voluto di tempo. Tanto tempo. Ma molto meno di quello che mi era sembrato. Perché intanto a Scicli bisogna viverci, bisogna respirare, bere, mangiare, pensare e amare qualcuno, possibilmente. Perché queste azioni ti fanno sentire ancora vivo. 

Abitavo in una piccola strada. Periferica di questo mondo periferico. Vivevo in un’orbita esterna della civiltà, come in un sogno dettato dalla febbre. La via dei Nossi, al numero trentanove. Vicina al cimitero, dove l’asfalto della strada lascia il posto allo sterrato. Vicino ad una officina e ad un deposito di attrezzature edili. Nel deposito di attrezzature edili ci abitavano, ed era anche una bella famiglia… Ma non era vicino a casa mia. Io stavo più distante, dove abitavo io, c’erano “i sardi”, e mi facevano paura. 

Per me che venivo da un altro mondo “i sardi” non erano i nativi della Sardegna, ma un’etnia completamente diversa, una razza diversa, forse animali diversi cresciuti a pane e violenza. A pane e violenza. Non ci ho mai fatto pane insieme… Violenza sì. Qualche volta. Giusto per non imparare a subire. Forse è lì che ho imparato a nuotare. Nel mare dell’umanità. Ho imparato da solo a stare a galla, difendendomi con accanimento dagli attacchi della vita, dagli attacchi della violenza gratuita. 

Quando uscivo, per lo più per fare piccole commissioni, camminavo rasente i muri, velocemente, facendo la faccia cattiva e concentrata in un punto lontano davanti a me… Quasi fossi un animale ferito, cattivo, e pericoloso che cerca un rifugio nel nulla e nel mai. Spiavo dalle persiane quando era il momento migliore di uscire, perché, non fosse solo la solitudine la mia compagna di giochi. Andavo, rapidamente, per i vicoli, rasente i muri… e tornavo. E al ritorno rivedevo tutto il tragitto e respiravo. 

Quando ebbi una collezione consistente di questi momenti, cominciai a respirare. Cominciai a rilassarmi, quel tanto che bastava per non agonizzare. E piangevo, rivedendo i colori, la gente della città che avevo lasciato. E che non avrei visto più… Forse. 

Avevo un fratello, si chiamava… si chiama Regio. Non lo amavo. Era un problema in più. Una bocca in più da sfamare al desco della felicità. Merce rara la felicità. Una cosa che mancava sempre alla nostra tavola. 

Lupo era mio padre, mia madre si chiamava Nina, poi c’ero io, Destro, e mio fratello Regio, di otto anni più piccolo di me. Il pane non mancava, e nemmeno il companatico, e qualche volta anche qualcosa di più. Ma la serenità, per non parlare della felicità… quella, mancava sempre. Era come vivere in uno stato febbrile permanente. Però noi eravamo diversi dai “sardi”. Noi venivamo dalla città e avevamo un’educazione. Avevamo studiato, o poco o tanto, e noi ragazzi continuavamo a studiare. L’aspetto positivo è che a Scicli la scuola era meno impegnativa che in città, gli insegnanti si accontentavano di più. Anzi direi che la scuola a Scicli era una passeggiata, anche quando non sapevi una cosa. Bastava dire con educazione che non avevi studiato e spiegare il perché era successo. Non dovevo andare in campagna a lavorare, non avevo saltato la scuola per andare a rubare… Bastava dire la verità e ti perdonavano, e ti rispiegavano quello che non sapevi. C’era qualcuno fra questi insegnanti che mi ha cambiato la vita… In bene, qualcun’altro in meglio. 

Arrivò anche il giorno che dovetti affrontare i miei incubi… Una specie di imboscata. Ma non fu una tragedia come immaginavo. “I sardi” avevano una sorta di codice d’onore, e mi concessero di sopravvivere. In qualche modo. Dovetti picchiare. Feci amicizia con la violenza e la ferocia e capii presto che queste due sorelle possono essere, in qualche maniera, anche seduttive. Alla fine mi riconobbero una specie di rispetto.
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